Gli Specchi di Tuzun Thune

Table of contents
- Introduzione
- La vicenda, per sommi capi
- La Dissoluzione Semantica Iniziale di Kull
- Tuzun Thune: la figura dell’architetto
- La "Casa dei Mille Specchi" come Laboratorio Semiotico
- La Relatività del Reale
- L'Identità personale come segno fluttuante
- La Crisi del Consenso Sociale
- L’era post-fattuale - Tuzun Thune come Troll Factory
- L'Eredità dell'ambiguità
- Recap

Introduzione
Apparso per la prima volta su Weird Tales nel settembre 1929, The Mirrors of Tuzun Thune è uno degli unici tre racconti della saga di Kull di Valusia pubblicati in vita da Robert E. Howard. Pur essendo un racconto fantasy d’avventura, nasconde una dimensione profondamente introspettiva, con allegorie radicali sulla manipolazione del significato e sulla crisi dell’identità. Il fulcro attorno a cui ruota l’intera vicenda è un oggetto semplice, il cui significato è talmente stratificato da essere sempre stato una fonte simbolica molto feconda: lo specchio. Attraverso la metafora dello specchio, Howard esplora in questo racconto - più o meno intenzionalmente - temi di semiologia e filosofia del linguaggio, interrogandosi su realtà e illusione, percezione e verità, senza però mai offrire risposte definitive. Il viaggio di Kull nello specchio diventa così un percorso filosofico: i simboli ricavati dalle immagini restituite dallo specchio mettono in discussione il rapporto tra significante e significato, tra apparenza e essenza.
In questo saggio si analizzeranno le implicazioni semiotiche e semantiche del racconto, seguendo una serie di tappe concettuali: dalla dissoluzione iniziale del senso per Kull, attraverso l’inganno orchestrato da Tuzun Thune, fino all’ambigua eredità finale di dubbi sulla realtà. Questa analisi manterrà un tono interrogativo più incline a sollevare domande che a fornire certezze, in continuità con lo spirito del racconto stesso.
La vicenda, per sommi capi
Kull, re di Valusia, stanco della corte e afflitto da un’inspiegabile malinconia, viene indotto da una misteriosa fanciulla a cercare il mago Tuzun Thune nella sua dimora sul Lago delle Visioni, la celebre “Casa delle Mille Specchi”. Lì scopre un’enorme sala lastricata di specchi d’ogni fatta e, guidato dal mago, inizia a contemplarli. Vi sono specchi che mostrano passati esotici, altri, futuri apocalittici, e infine uno specchio che mostra il suo riflesso come se fosse un’entità a sé . Giorno dopo giorno Kull trascura i suoi doveri, ossessionato dal dubbio di essere egli stesso un mero riflesso rispetto a un “sé” autentico che sussiste oltre la soglia dello specchio. Al culmine di questa trance, il fedele guerriero Brule irrompe, infrange lo specchio che stava consumando Kull e uccide Tuzun Thune, svelando l’intrigo che mirava a neutralizzare il sovrano. Da allora la Casa rimane maledetta e deserta, mentre Kull, pur salvo, continua a interrogarsi sull’effimera natura della realtà.
La Dissoluzione Semantica Iniziale di Kull
Sin dalle prime scene, Kull sperimenta una sorta di dissoluzione semantica del suo mondo. Tutto ciò che prima aveva significato e splendore per lui ora appare vuoto e privo di vita. Gli oggetti e i simboli del suo potere regale perdono il loro significato: l’oro del trono gli sembra rame, le sete del palazzo sono scolorite, e perfino la voce dei sudditi gli suona come un rumore privo di senso.
“Arriva anche per i re il tempo della noia. L'oro del trono è ot- tone, le sete del palazzo sono canovacci. Le gemme della corona splendono tristemente come ghiaccio nei mari grigi; le parole degli uomini sono chiacchiere vuote come i sonagli di un giulla- re e si ha la sensazione che ogni cosa sia irreale; persino il sole è rame, nel cielo, e la brezza degli oceani verdi non è più fresca.”
In altre parole, il linguaggio stesso si svuota: il significante (le parole, gli atti formali di corte) non evoca più alcun significato vivo in Kull. Egli percepisce il mondo circostante come un’ombra, un susseguirsi di eventi “insignificanti” che scivolano via senza lasciare traccia nella sua coscienza. Questa condizione di disincanto totale indica una crisi epistemica ed esistenziale: Kull non trova più riferimenti di senso nella realtà che lo circonda, provando un vago “senso di irrealtà” . Si delinea qui un primo disorientamento ontologico: il re guerriero, pur nel pieno del suo potere, è intimamente smarrito di fronte al venir meno dei significati condivisi che davano sostanza al suo ruolo e al suo mondo. Questa stanchezza del reale spinge Kull a cercare qualcosa che trascenda ciò che conosce, rendendolo vulnerabile al richiamo di visioni e misteri sconosciuti. La dissoluzione semantica iniziale, dunque, prepara il terreno per l’ingresso di nuovi significati manipolati dall’esterno: un animo reso vuoto di certezze può facilmente essere colmato da illusioni altrui.
Tuzun Thune: la figura dell’architetto
Nel momento in cui Kull, spinto dal consiglio subdolo di una cortigiana, si rivolge al mago Tuzun Thune, entra in scena la figura dell’architetto di realtà semantiche. Tuzun Thune, appartenente alla razza antica, accoglie Kull nella sua dimora e subito inizia a manipolarne la percezione attraverso giochi di parole e paradossi. Con fredda astuzia, il mago risponde alle domande di Kull in modo da scardinare in lui ogni certezza: quando Kull chiede se sappia compiere prodigi, Tuzun Thune replica che la più grande meraviglia è il semplice fatto di camminare e respirare; quando Kull domanda dei demoni, il mago risponde di poter evocare il più feroce demone semplicemente schiaffeggiandolo – un ribaltamento che lascia interdetto il re. Significati abituali vengono capovolti con sottile ironia. Il culmine di questa destabilizzazione linguistica giunge quando Tuzun Thune dichiara: “La morte inizia con la nascita... tu già sei morto, Kull, dal momento che sei nato”. Un’affermazione simile mina le fondamenta stesse dei concetti di vita e morte, costringendo Kull a mettere in dubbio i confini semantici più basilari. Tuzun Thune si rivela così un abile tessitore di simulacri verbali: usando il linguaggio, semina in Kull il germe della confusione tra realtà e apparenza. Egli invita quindi il re a guardare nei suoi specchi, promettendo saggezza:
“Guarda nei miei specchi e diventa saggio” dice con voce ipnotica, suggerendo che la verità cercata da Kull non risiede nel mondo ordinario ma nelle visioni riflesse. In questa fase, il mago costruisce attivamente una nuova cornice di significato attorno a Kull – un universo alternativo in cui i normali parametri sono sospesi. Tuzun Thune sta allestendo il suo laboratorio, pronto a riscrivere per Kull le regole di ciò che è reale o possibile. Il re, già indebolito dalla propria disillusione, inizia così il percorso dentro una realtà artificiale plasmata dalle parole e dai simboli del mago.
La "Casa dei Mille Specchi" come Laboratorio Semiotico
L’ingresso di Kull nella Casa dei Mille Specchi segna il passaggio dal piano delle allusioni verbali a quello delle illusioni visive: l’ambiente stesso diventa un laboratorio semiotico in cui segni, immagini e riferimenti si moltiplicano e si confondono. “Gli specchi sono il mondo, Kull” dichiara il mago in tono monotono e solenne. Questa frase programmatica rivela l’intento di Tuzun Thune: nei suoi specchi egli crea mondi di significati alternativi, in cui Kull è chiamato a perdersi per trovare (forse) una nuova saggezza. La sala degli specchi è una metafora dello spazio semantico dove i simboli (i riflessi, le visioni) rimbalzano all’infinito, costruendo corridoi di senso ingannevoli. Kull inizia a guardare in uno degli specchi e vede riflessa un’immagine di sé che si ripete in prospettiva: specchio dopo specchio, un corridoio luminoso si perde in lontananza e in fondo ad esso una figurina minuscola si muove. Dopo un attento scrutare, Kull si rende conto che quella piccola figura è il suo stesso riflesso e ne è scosso: lo coglie “una strana sensazione di piccolezza, come se quella minuscola figura fosse il vero Kull, nelle sue proporzioni reali”. In questo esperimento percettivo, lo specchio agisce come un segno che distorce il referente: l’immagine di Kull viene ridimensionata e moltiplicata fino a fargli dubitare della propria importanza nel cosmo. Ogni specchio nella casa presenta un nuovo scenario simbolico. In uno, definito “lo specchio del passato”, Kull scorge attraverso nebbie grigie visioni di epoche remote: creature mostruose, giungle primordiali, draghi volanti e paesaggi di un mondo preumano scorrono davanti ai suoi occhi. In un altro specchio gli appare “il futuro”: egli vede inorridito gli Imperi ridotti in polvere, la sua amata Valusia scomparsa sotto le onde e popoli sconosciuti vagare su terre nuove. Scene impossibili rispetto all’esperienza presente di Kull vengono presentate come reali, obbligandolo a confrontarsi con simboli di caducità, ciclicità del tempo e relatività del potere umano. La Casa dei Mille Specchi funziona dunque come un dispositivo semiotico che altera sistematicamente il rapporto tra segni e realtà: le immagini riflesse non sono semplici riproduzioni del mondo, ma simulazioni che condensano tempo e spazio, realtà e possibilità. In questo luogo, Tuzun Thune conduce Kull attraverso esperimenti percettivi che scuotono la sua interpretazione del mondo. Ogni specchio è una finestra su un simulacro di mondo. Kull, affascinato e turbato, assorbe queste lezioni visive senza rendersi conto che la sua capacità di distinguere tra vero e falso sta progressivamente venendo meno.
La Relatività del Reale
A mano a mano che Kull si immerge nelle visioni degli specchi, il racconto sviluppa la tematica della relatività del reale. Le certezze ontologiche iniziano a vacillare: ciò che è reale e ciò che è illusorio diventa sempre più indistinguibile. Il momento chiave avviene davanti allo “specchio della magia più profonda”, quando Kull vede riflesso solo sé stesso. Inizialmente gli pare banale, ma su insistenza del mago torna a guardare più da vicino. A questo punto Kull è colto da pensieri vertiginosi sulla natura della propria esistenza. Davanti al proprio doppio speculare, il re si domanda:
“Sono io l’uomo o lo è lui? Chi di noi è il fantasma dell’altro?”
Questa domanda rappresenta l’apice del disorientamento ontologico di Kull: il confine tra l’essere reale e il riflesso si assottiglia fino quasi a scomparire. Se l’immagine può apparire viva quanto l’originale, allora quale dei due è in realtà l’ombra? Kull contempla la possibilità che gli specchi non siano semplici superfici riflettenti, ma “finestre su un altro mondo”, e che egli stesso possa essere percepito dal suo doppio come un riflesso evanescente. In questa crisi, ogni nozione di realtà oggettiva diventa relativa al punto di vista: per il Kull oltre lo specchio, lui (il re di Valusia) potrebbe non essere che un’apparizione.
“Chi vuole vedere deve prima credere” ammonisce il mago, capovolgendo il senso comune (secondo cui è la evidenza a fondare la credenza) e suggerendo invece che la credenza possa fondare la realtà visibile. Sotto questa luce, la “verità” diventa qualcosa di plasmabile: le illusioni possono diventare reali se la mente vi acconsente. Kull si trova così intrappolato in una illusione costruita ad arte, una realtà alternativa che ha la stessa dignità percettiva del reale. Il racconto in questa fase assume toni quasi pre-postmoderni, mettendo in scena l’idea che la realtà non sia assoluta ma dipenda dall’interpretazione e dalla prospettiva di chi la osserva. Ogni specchio offre una realtà “altra” e l’esperienza di Kull suggerisce che il nostro mondo potrebbe essere uno specchio tra infiniti altri. Il reale diventa un concetto sfuggente, continuamente ridefinito. Così, l’illusione non è più nettamente separabile dalla realtà: è una costruzione altrettanto consistente nell’occhio di chi guarda. Howard ci presenta queste idee ardite senza spiegarle del tutto, lasciandoci con la sensazione inquieta che la realtà, forse, sia relativa e suscettibile di essere riscritta da chi ne controlla i significati.
L'Identità personale come segno fluttuante
Parallelamente al dubbio ontologico sulla realtà, il racconto sviluppa una profonda crisi dell’identità personale di Kull. Il confronto con il proprio riflesso porta il re a concepire sé stesso come un segno fluttuante, privo di un referente unico e stabile. A poco a poco Kull cessa di considerare l’immagine nello specchio come una semplice ombra passiva. Il doppio speculare acquista ai suoi occhi una vita propria, una sorta di anima riflessa. Giorno dopo giorno, il re arriva a dubitare di quale mondo fosse quello reale: si chiede se non sia egli stesso la proiezione, “l’ombra evocata a piacimento dall’altro”, vivendo in un mondo di delusioni, mentre il suo doppio potrebbe abitare il mondo autentico. La personalità di Kull si è dunque sdoppiata in un originale e un riflesso, senza che sia più chiaro chi dei due detenga l’autenticità. In termini semiotici, il nome e l’immagine di Kull – il segno che identifica la sua persona – si sganciano da un singolo referente concreto. L’identità diviene un simulacro ambiguo: un’immagine speculare che imita il re eppure potrebbe sostituirlo, invertendo originale e copia. Kull stesso contempla la possibilità di “oltrepassare quella porta” ed entrare nel mondo oltre lo specchio, assumendo per un tempo l’identità del suo doppio. Ma questo solleva la temibile domanda: se lo facesse, potrebbe mai ritornare? Laddove prima vi era una salda convinzione di sé (Kull, re di Valusia, unico e reale), ora vi è uno slittamento continuo tra due poli identitari. Il significante “Kull” non indica più un’entità univoca: fluttua tra il sé corporeo seduto davanti allo specchio e l’alter ego intrappolato oltre la superficie. Questa condizione getta Kull in una grave crisi d’identità: il re non può più fidarsi nemmeno della propria percezione di esistere in modo singolare e concreto. Howard esprime con potenza narrativa questo smarrimento personale, mostrando Kull ipnotizzato dal suo stesso riflesso, attratto e terrorizzato dall’idea che la sua essenza possa non essere unica. Il riflesso è uno specchio nel senso più profondo: riflette Kull ma anche lo sdoppia, lo aliena da sé stesso. L’identità diviene un gioco di rimandi tra originale e copia, un enigma senza soluzione certa. In ultima analisi, il personaggio di Kull incarna il concetto che l’Io è un segno interpretabile e manipolabile: privo di un centro fisso, esso può essere ridefinito se immerso in un contesto di riferimenti ingannevoli. La sua identità, come un segno senza ancoraggio, fluttua nell’incertezza, rispecchiando le angosce più profonde dell’uomo di fronte allo sdoppiamento e alla perdita di sé.
La Crisi del Consenso Sociale
Mentre Kull sprofonda nella sua crisi percettiva personale, il racconto suggerisce anche una crisi del consenso sociale nel regno di Valusia. Il re, assente dai doveri di governo e assorto nelle sue contemplazioni allo specchio, provoca inquietudine e disordine nel mondo reale attorno a sé. Segni evidenti di questo scollamento emergono: “Gli affari di palazzo e del consiglio vennero trascurati. Il popolo mormorava; lo stallone di Kull scalpitava inquieto nella stalla, e i guerrieri del re giocavano ai dadi oziosamente” . L’inerzia del sovrano – perso nei labirinti della sua mente – si ripercuote sul regno. Qui Howard ci mostra implicitamente come la realtà collettiva (l’ordine politico e sociale di Valusia) dipenda da un consenso condiviso su priorità e significati. Kull, re legittimo e centro dell’autorità, abbandonando il suo ruolo crea un vuoto di senso nel corpo sociale: i suoi soldati non hanno più ordini chiari, il popolo bisbiglia in preda a voci e timori, la normalità quotidiana è sospesa. È come se il tessuto semantico che tiene insieme la società – fatto di rituali, leggi, comunicazione tra re e sudditi – si fosse lacerato a causa della deriva solipsistica di Kull. Si configura dunque una crisi del consenso, perché viene a mancare l’accordo su cosa sia reale e importante nel regno: il sovrano e il suo popolo non condividono più la stessa percezione del mondo. Mentre gli altri vivono nella realtà concreta di ogni giorno, Kull vaga in una dimensione privata di simboli incomprensibili ai più. Il racconto lascia intendere che nessuno, a parte il mago, sappia cosa stia succedendo nell’animo del re – il che acuisce la frattura di comprensione. Inoltre, Howard enfatizza il conflitto interiore di Kull con immagini di disorientamento. Questa descrizione sottolinea che la mente di Kull è ormai incapace di distinguere l’immaginazione dalla realtà condivisa. Epistemologicamente, il re ha perso la bussola: non sa più quali pensieri siano suoi e quali insinuati dall’esterno, e questa confusione mentale lo rende inefficace come guida per il suo popolo. Valusia rischia così di precipitare nel caos non per una guerra o una rivolta, ma per la perdita di un riferimento comune di realtà tra governante e governati. La crisi interiore del singolo (Kull) diventa specchio della crisi collettiva: senza un accordo su cosa sia reale e vero, la coesione della società è minata. Howard, attraverso questa situazione, sembra anticipare la riflessione che una realtà frammentata – in cui ognuno vede “la propria verità” – conduce a un terreno pericoloso in cui il tessuto sociale stesso può sfaldarsi.
L’era post-fattuale - Tuzun Thune come Troll Factory
Nel climax del racconto, viene finalmente svelato il contesto della manipolazione subita da Kull, collegando la vicenda a un tema di sorprendente modernità: l’inganno orchestrato e la fragilità della verità, elementi che anticipano l’odierna era post-fattuale. Si scopre infatti che Tuzun Thune non agiva per propria iniziativa filosofica, ma era parte di un complotto politico. Brule, l’amico guerriero di Kull, irrompe nella stanza degli specchi appena in tempo per salvare il re e uccidere il mago traditore. Egli rivela che il mago ha intessuto una tela di magia attorno al re e che Kaanuub di Blaal aveva complottato con questo stregone per eliminarlo. Veniamo quindi a sapere che l’intera esperienza di Kull era stata architettata come un’arma subdola: un attentato non fisico ma semantico. L’obiettivo di Kaanuub e Tuzun Thune era di far scomparire Kull, imprigionandolo in un’illusione così totale da portarlo persino a dissolversi fisicamente. Infatti, Brule descrive la scena con sgomento: ha visto Kull “svanire in quella superficie come fumo che si dissolve nel cielo... quasi non fossi più lì”. Solo il suo urlo disperato ha ridestato Kull un attimo prima che oltrepassasse del tutto la soglia dello specchio. Questo scenario è una chiara metafora di come la manipolazione della percezione possa avere effetti distruttivi quanto una lama: Kull, guerriero invincibile in battaglia, è stato quasi annientato da un inganno dei sensi e della mente. Howard, tramite il complotto di Tuzun Thune, anticipa concetti che oggi attribuiamo all’era post-fattuale: un’epoca in cui la distinzione tra verità e menzogna diventa labile e il potere risiede in chi riesce a imporre la propria narrazione della realtà. Tuzun Thune, secondo una particolare inquadratura della sua figura (inquadratura che non ottiene un sigillo univoco di veridicità neanche dall’autore) è l’incarnazione di una moderna Troll Factory. Kull è vittima di una falsa realtà costruita ad arte – possiamo vederla come una sorta di “fake news” ante litteram, o meglio una fake reality – così persuasiva da fargli dubitare di ciò che vedeva e perfino della propria esistenza corporea. Il mago agisce proprio sulla massima da lui enunciata, “l’uomo è perché crede di essere”: convincendo Kull a credere alle illusioni, praticamente lo stava facendo svanire dal mondo “reale”. Questo stratagemma narrativo richiama la dinamica della disinformazione moderna, in cui la percezione pubblica può essere distorta e intrappolata in una realtà alternativa se qualcuno riesce a manipolare i segni, le parole e le immagini credibili. L’alleanza tra un politico (Kaanuub) e un maestro di illusioni (Tuzun Thune) per rovesciare un capo attraverso menzogne elaborate è un tema incredibilmente attuale: prefigura scenari in cui leader o popoli interi possono essere sviati da dispositivi retorici ben congeniati, perdendo contatto con i fatti. Il racconto, scritto nel 1929, sembra profetizzare che il potere della manipolazione semantica può superare quello della forza bruta: in futuro, chi controllerà gli specchi (i media, le narrazioni) potrà soggiogare anche i re attraverso una declinazione particolare di guerra ibrida. L’esperienza di Kull è dunque un monito post-fattuale ante litteram: ci mostra come la realtà possa essere falsificata e come, in assenza di consenso sui fatti, anche una società avanzata (Valusia) rischi il collasso interno. Fortunatamente, nel racconto l’intervento di Brule – incarnazione del richiamo al reale – spezza l’incantesimo. Ma il breve dialogo finale con Brule evidenzia un ultimo insegnamento: Kull chiede cosa mai avesse potuto motivare un mago tanto saggio a tradire, e Brule risponde laconicamente che anche i maghi sono uomini: “oro, potere e posizione” li possono corrompere. Dietro la nebbia filosofica e magica, Howard non dimentica di mostrare la cruda realtà materiale: spesso le grandi menzogne vengono costruite per ambizione o avidità.
L'Eredità dell'ambiguità
Nonostante la cospirazione venga sventata e Tuzun Thune cada morto, il racconto non offre una conclusione rassicurante né tantomeno ristabilisce una visione chiara della realtà. Al contrario, l’esperienza vissuta da Kull lascia un’eredità di ambiguità semantica destinata a perdurare. Il re è salvo, ma la sua visione del mondo è per sempre cambiata. Nelle ultime scene, Kull contempla per l’ultima volta gli specchi e confessa a Brule il suo dubbio irrisolto: “era la sua stregoneria che mi stava mutando in nebbia, o avevo scoperto mondi al di là di questo? Se tu non mi avessi riportato indietro, sarei svanito nella dissoluzione o avrei trovato altri mondi?”. Queste domande, poste dal protagonista stesso, rimangono senza risposta esplicita nel testo. Brule, uomo pratico, preferisce non indugiare e invita Kull ad andarsene e a dimenticare gli specchi, quasi temendo anch’egli il potere seduttivo di quelle superfici enigmatiche. Ma Kull non può davvero dimenticare: tornando sul suo trono a Valusia, egli continua a meditare spesso sulla “strana saggezza e gli indicibili segreti” intravisti negli specchi, restandone affascinato e inquieto al tempo stesso. Il narratore conclude con una nota suggestiva: “Kull è meno sicuro della realtà da quando ha guardato negli specchi di Tuzun Thune”. Questa frase lapidaria suggella il cuore filosofico del racconto. L’ambiguità seminata dal mago ha messo radici nella mente di Kull: neppure la spiegazione razionale del complotto basta a cancellare la vertigine di possibilità che il re ha intravisto. Egli sa (o crede di sapere) che “esistono mondi oltre ai mondi” e che comunque “si sono aperte delle visioni” nella sua mente che vanno al di là della semplice illusione. Rimane dunque sospeso il quesito fondamentale: Tuzun Thune era solo un abile illusionista o, tramite i suoi specchi, aveva davvero permesso a Kull di sbirciare in altri piani dell’esistenza? Howard volutamente lascia nell’ombra questo dubbio. Gli specchi stessi, dopo quegli eventi, rimangono nella casa abbandonata, evitata da tutti come “un luogo maledetto”. Nessuno osa più specchiarsi lì, quasi che lo spettro dell’inganno (o della verità troppo sconvolgente) resti intrappolato in quei vetri lucenti. L’eredità che il racconto ci consegna è proprio questa persistente incertezza sul rapporto tra segni e realtà: una volta che la mente di Kull ha assaporato la nozione che la realtà potrebbe essere solo una delle tante – forse una illusione anch’essa – non può più tornare alla precedente ingenuità. In termini di filosofia del linguaggio, potremmo dire che Kull ha sperimentato la caduta del referente: ciò che prima dava significato saldo al mondo (la convinzione condivisa di ciò che è reale) si è incrinato per sempre. Egli ha intravisto i limiti del linguaggio e della percezione, intuendo che ogni realtà può essere un falso e ogni certezza un’interpretazione. Questo lascito di ambiguità semantica costringe sia Kull che il lettore a convivere con le domande aperte. Il racconto non offre facili morali: non dichiara che “era tutto un trucco” né afferma che “mondi oltre lo specchio esistono davvero” – suggerisce piuttosto che entrambe le cose potrebbero essere vere, a seconda di quanto siamo disposti a credere. Proprio questa ambiguità finale è il segno di una narrazione matura e moderna: Howard trasforma una vicenda sword-and-sorcery in una riflessione sullo statuto incerto della realtà, sul potere dei simboli e sull’identità come costrutto sfuggente. L’eredità per noi è una sfida intellettuale: terminata la lettura, restiamo – come Kull – a domandarci se la realtà che conosciamo sia davvero solida o se, dietro la superficie delle cose, si nasconda un gioco infinito di specchi e rimandi di senso.
Recap
In Gli Specchi di Tuzun Thune, Robert E. Howard intreccia magistralmente avventura fantastica e speculazione filosofica, offrendo un racconto che è al contempo intrattenimento e pungolo intellettuale. Attraverso l’odissea di Kull, vediamo dispiegarsi temi di sorprendente profondità: la facilità con cui il significato può essere manipolato e svuotato, il potere di chi controlla i segni e le immagini di ridefinire la percezione altrui, la frantumazione della realtà in piani multipli e soggettivi, la crisi dell’identità personale quando viene a mancare un referente stabile, e infine le ripercussioni sociali e politiche della perdita di un consenso sui fatti. Il saggio ha esplorato ciascuno di questi “semi concettuali”, mostrando come Howard – pur senza esporre teorie in modo esplicito – metta in scena una potente allegoria delle trappole del linguaggio e della percezione. Il tono volutamente aperto e enigmatico del racconto si riflette nel mio approccio: ho evitato di fornire risposte univoche perché l’opera stessa insegna che ogni risposta può essere solo un altro riflesso negli specchi. Il racconto ci invita a riflettere criticamente sulla natura della realtà e della verità. Le ultime righe, con Kull che medita inquieto sugli specchi, suggeriscono che anche noi dovremmo domandarci: fino a che punto ciò che diamo per reale non è anch’esso una costruzione basata sui simboli e sul consenso? E chi detiene realmente il potere: colui che regna su un trono tangibile, o colui che controlla lo specchio attraverso cui quel trono viene visto e compreso? Howard non offre una soluzione, ma il valore della sua novella sta proprio nel lasciarci in quello spazio di dubbio creativo. Siamo spinti a scrutare i nostri “specchi” quotidiani – le parole, le immagini, le convinzioni condivise – chiedendoci quanta parte della nostra realtà sia oggettiva e quanta invece frutto di interpretazione. Realtà, percezione, identità: negli specchi di Tuzun Thune questi elementi si confondono, e la loro esplorazione rimane, allora come oggi, un affascinante enigma aperto.
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